LA TESTIMONIANZA
Marco Bologna: «L’insegnamento del 1977 e il nostro primo Piano di Protezione Civile. Ma il ricordo di quell’acqua fredda non lo scorderò mai»
Tra chi ricorda minuto per minuto in quei tragici giorni del novembre 1994, c’è Marco Bologna. Unanimemente riconosciuto come il ‘papà’ della Protezione civile alessandrina, all’epoca era ‘solamente’ sindaco di Piovera.
«Ovvero – spiega – un paese ubicato alla confluenza tra Tanaro e Bormida, per cui tutta l’acqua di questa parte del Piemonte passa da noi. E nel 1977, pochi alessandrini ormai lo ricorderanno, c’era stata già un’alluvione causata dal Bormida, che aveva causato delle vittime a Tortona e a Serravalle Scrivia. Noi, per fortuna, riuscimmo a scongiurare l’entrata dell’acqua in paese tagliando la strada per Bassignana: una decisione che permise di evitare lo sfondamento dell’argine. Ma da quel momento tutti avevamo la consapevolezza che le difese fino ad allora costruite non potevano bastare».
Quando diventò sindaco cosa fece?
«Un vero e proprio Piano di Protezione civile, che peraltro veniva già raccomandato dalla Prefettura. Il documento prevedeva interventi in paese attraverso barriere di terra in caso di piena e rottura degli argini. Contemporaneamente, approfittando delle dismissioni di numerosi mezzi da parte dell’Esercito, acquistai a prezzo irrisorio cisterne, ribaltabili e camion che sarebbero potuti servire in caso di necessità. A quel punto, a Piovera avevamo ciò che occorre per sapere cosa fare se l’acqua avesse nuovamente minacciato il paese: un Piano aggiornato, un gruppo di gente addestrata e i mezzi. Non solo: tra il 1990 e il 1992 ci dotammo pure di un ponte radio, che ci fece prendere qualche sberleffo ma che appena un paio d’anni dopo si sarebbe rivelato fondamentale…».
Arriviamo così al novembre 1994:
«Venerdì 4 – ricorda Bologna – si scatena la prima parte dell’alluvione. Il Bormida è in piena e arriva su Alessandria. Noi, conoscendo la debolezza della nostra struttura arginale, cominciamo i pattugliamenti e ci rendiamo conto di essere molto a rischio. Per cui, mentre i volontari cominciano i monitoraggi, sabato 5 iniziammo a fare alcune evacuazioni in golena. Le acque, però, continuavano a salire e decisi di passare la notte tra sabato 5 e domenica 6 in Comune, su tre sedie, vicino a telefono, radio e fax. Ecco perché alle 6 del mattino io lessi in diretta la famosa nota della Prefettura che rendeva noto che Asti era ormai allagata e che occorreva prendere ogni misura necessaria per evitare il disastro anche qui da noi».
Cosa fece?
«Non persi tempo: poche ore e i medesimi problemi sarebbero toccati a noi, non c’era scampo. Così mi recai in chiesa, alla messa delle 8, e dissi alle donne presenti che avevo bisogno dei loro mariti e di ogni trattore e rimorchio disponibile, e che ci saremmo ritrovati in piazza. Piovera ha vie strette, è facilmente difendibile e di conseguenza mettemmo in pratica le idee messe nero su bianco pochi anni prima, realizzando degli argini in terra alti 3 o 4 metri. Peraltro – e questa fu una casualità fortunata – avevamo a disposizione una collina intera di terra portata via dall’area dove si stavano costruendo le fondazioni delle case popolari. Avevamo ciò che ci serviva per provare a salvare il nostro paese».
Ci riusciste?
«Realizzammo tre cerchi concentrici di argine, perché l’acqua alle 15 sormontò gli argini e arrivò dove sapevamo potesse giungere. Il bestiame delle zone esondabili era già stato messo al sicuro, in contatto costante via radio con i sindaci di Alluvioni Cambiò (Maccarini), Guazzora (Cereda) e Isola Sant’Antonio (Arfini) chiedemmo al prefetto l’autorizzazione a tagliare la strada come nel 1977, ricevendo però un diniego. L’acqua, purtroppo, sciolse il primo anello, gli altri resistettero ma trovò uno sfogo alternativo, andando a inondare altri paesi per fortuna senza causare vittime. E ad Alessandria, intanto, scoppiava il dramma».
Cosa sapevate in quei momenti del capoluogo?
«Io venni in città intorno alle 17: volevo andare in Prefettura per chiedere nuovamente il permesso di tagliare la strada. Permesso che finalmente ricevetti, ma vidi pure che mezza città era sommerso e che ormai lì non si poteva fare più nulla. Tornai in paese e insieme ad alcuni tecnici, al primo cittadino di Guazzora e all’imprenditore Pietro Gavio cercammo di andare nel punto dove un escavatore era pronto per aprire il varco lungo la statale. Era sopraggiunta sera: la visibilità era scarsa e fummo sorpresi dalle acque del Tanaro, che sommerse la jeep dove ci trovavamo io e Gavio…».
Minuti drammatici…
«Fummo tratti immediatamente in salvo dagli altri – ammette Bologna – ma il ricordo dell’acqua fredda, limacciosa, odorante di nafta ce l’ho ancora addosso. E tuttora, se ci penso, vivo questo aspetto quasi come un incubo. Con il sottofondo spettrale del rumore dell’acqua di notte, quando non c’è luce: senti solo il fiume che allaga e non riesci a fare niente. Hai solo la sensazione di essere impotente».
La nottata passò. Il giorno iniziò la conta dei danni?
«Piovera era salva, ma i Comuni vicini no. Iniziammo dunque a prestare aiuto, rendendoci conto di cosa il fiume si era portato via. Ma, insieme agli altri sindaci, avemmo tutti la netta impressione che il disastro aveva colpito in particolare una realtà: Alessandria. Ecco perché i camion, le ruspe, le jeep, le motopompe che avevamo, furono tutte destinate al capoluogo. E l’allora vicepresidente della Provincia, Pierangelo Taverna, ci chiese se potessimo raggiungere San Michele. I ponti erano bloccati, ma venendo dal paese potevamo utilizzare l’autostrada e così facemmo».
Cosa trovaste nel sobborgo più colpito dalla furia del Tanaro?
«Ciò che vidi non lo dimenticherò mai più: animali morti sulle strade, mucche gonfie d’acqua, case allagate e sventrate. Ma, soprattutto, gli occhi di chi si era salvato. Che denotavano un senso di spavento dovuto a una cosa mai vista prima. Era difficile provare a rincuorare le persone, le aziende colpite».
Quanto durò il vostro operato a San Michele?
«Dante Ferraris della Provincia mi affidò il compito di coordinare quello che ritengo il miglior gruppo di volontariato organizzato: i Volontari del Garda, che erano arrivati in forze. Li alloggiammo nelle scuole di Piovera per oltre un mese e la popolazione fu commovente, perché li assistette per l’intero periodo come fossero di famiglia. Intanto, approfittando del ponte radio efficiente e della possibilità di arrivare a San Michele dall’autostrada, continuammo a pianificare il lavoro nel sobborgo. Dove, attorno a don Ivo e alla parrocchia, si era creato un punto di raccolta e anche logistico, tanto che con il dottor Rossi – all’epoca comandante dei Vigili di Valenza – ci dividemmo i compiti. La parrocchia raccoglieva gli aiuti e lì smistava, noi intervenivamo in operazioni specifiche come svuotamento di abitazioni o aziende agricole, lavaggio e disinfezioni. Con i Volontari del Garda, che avevano in dotazione degli spurghi preziosissimi, che non si trovavano da nessuna parte, sempre con noi. Tanto che poi andammo pure agli Orti».
Altra realtà drammatica di quel novembre 1994…
«La sensazione fu uguale a quella avuta quando arrivammo a San Michele, anche se ormai erano passati alcuni giorni, tanto che erano stati pure riaperti i ponti. Furono giorni durissimi, per tutti quelli impegnati nelle operazioni di soccorso. E ho il ricordo nitido della sveglia alle 6 del mattino e del ritrovo dei volontari di Piovera che si riunivano in piazza per unirsi a quelli del Garda. Una cinquantina di uomini e ragazzi che salivano sui mezzi dei bresciani per andare a San Michele o al quartiere Orti per dare una mano sino a notte fonda, tornando a casa stravolti e coperti di fango. Ma con la soddisfazione di aver fatto, anche loro e tutti insieme come una vera comunità, la propria parte».
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