FOTO INEDITE
Una giovane fotografa Alessandrina e i suoi scatti pubblicati nel 1996
Qualche settimana dopo i tragici avvenimenti del 6 novembre 1994, una fotografa alessandrina, Guendalina Ravazzoni, realizzò una serie di scatti raffiguranti oggetti ed elementi vari, rinvenuti nei giorni successivi alla drammatica alluvione che colpì il capoluogo.
Dal numero 1 della Rassegna Economica, la rivista trimestrale della Camera di Commercio di Alessandria, pubblicata nel gennaio del 1996, abbiamo estrapolato un testo – che riportiamo integralmente – a firma di Roberta Ravazzoni, sorella di Guendalina, per spiegare il senso di un’iniziativa denominata ‘Oggetti da un’alluvione’. Le foto furono successivamente esposte in una mostra organizzata dall’associazione “Il Triangolo Nero”.
Giovane fotografa alessandrina, Guendalina Ravazzoni ha compiuto i suoi studi a Milano e attualmente vi svolge attività professionale presso lo Studio fotografico MDA, specializzato in still-life.
Le fotografie qui riprodotte appartengono alla serie “Oggetti da un’alluvione“, esposta al Triangolo Nero di Alessandria, nel mese di febbraio. In linea con i rigorosi e sensibili criteri di valutazione del Circolo culturale diretto da Gianni Baretta, e ospitate in conformità alla decisione di promuovere e sostenere, al di fuori delle logiche del mercato, anche le produzioni dei nuovi artisti non ancora molto conosciuti, con esse vengono per la prima volta presentati al pubblico i risultati del versante artistico della sua ricerca espressiva.
“Non esistono nature morte”. (Erica Jong)
Con “Oggetti da un’alluvione” Guendalina Ravazzoni ha inteso smarcarsi dell’immediatezza naturalistica dello sguardo perdutamente rivolto ai postumi dell’evento drammatico, attraverso un gesto documentario e testimoniale teso ad una peculiare modalità di astrazione.
Non sono fotografie impreziosite da virtuosismi tecnici, ma ritratti che si avvalgono degli elementi primari della visione: della luce più semplice possibile e dell’ombra, unica cornice di accompagnamento delle cose.
Volutamente ruvido e poroso è il supporto utilizzato, secondo l’intenzione di conferire un’accennata fisicità anche allo spazio di fondo: esso infatti appare indistintamente materico, come un’invisibile lontananza, quasi l’opaca sorgente germinale dell’effusione luminosa dalla quale emergono le figure.
A prima vista si potrebbe essere ingannati dalla delicata tessitura segnica ora brillante e opalescente, ora velatamente smorzata, e dalle modulazioni della gamma dei grigi da toni aspri e sordi a note morbide e rotonde, che fanno pensare più che alla tecnica fotografica alla controllata precisione del disegno. In verità, proprio le minime vibrazioni della luce sulle microscopiche componenti della materia costituiscono il cosmo che lo sguardo mediato dallo strumento ottico si stupisce di incontrare e si incanta a riprodurre.
Lo studio di Guendalina Ravazzoni avviene direttamente e completamente sulla cosa: l’obiettivo ne ricerca, nel suo profilo più espressivo la fascinazione del corpo; ne sonda nella disposizione delle linee e dei prodigi delle geometrie la tensione dinamica, ne scopre sulla superficie della più ovvia identità una profondità straniante e misteriosa.
Concentrandosi su alcuni oggetti di uso comune, estrapolati dal contesto nel quale furono rinvenuti, il mezzo fotografico ne ha captato la presenza e ne ha restituito la figura interpretandola come sagoma enigmatica di una traccia spettrale.
Non si tratta infatti di una vera dissoluzione delle forme in pura evocazione, poiché gli oggetti ci si presentano ben riconoscibili nei loro rilievi e contorni; piuttosto la concretezza loro attribuita in immagine è quella di sembianze che fanno segno verso un’assenza.
Tale effetto di percezione risponde all’ideale espressivo della figurazione astratta, qualora questo si identifichi con la coincidenza degli opposti: del disegno mentale con il brivido sensibile, della freddezza teorica con la passione carnale, dell’ordine necessario e matematico in cui si compongono gli equilibri con la precarietà convulsiva e organica del vitale.
Ed inoltre giustifica la scelta dell’astrazione in rapporto alla volontà memoriale di conferire ad un episodio tragicamente contingente un valore universale: “Quasi un disegno – scrive Silvio Danese — che recupera nell’astrazione l’incontro con il “volto” assente, la sofferenza degli alluvionati, i morti, le case sommerse, la vicenda esistenziale della tragedia. Queste fotografie sembrano parlare dell’anatomia di un delitto, che resta lontano eppure violentemente limitrofo, nel flusso di un’angoscia soft che esalta la tragedia come evento evocato”.
Il particolare, assunto nella sua radicale insignificanza ma contemplato con meraviglia, anziché divenire feticisticamente oggetto di adorazione a partire da un ideale teorico o affettivo precostituito, indica il limite dell’infinito inconcepibile e sublime che lo contiene e sovrasta e apre dunque il desiderio alla visione vertiginosa di una totalità che forse c’è, ma è precariamente resa improbabile dal non poter essere rappresentata né raccolta in unità.
Un frammento di Maurice Blanchot, da “La scrittura del disastro”, definisce in termini esatti la tematica verso la quale tende tale ispirazione: “Ogni bellezza è tale in quanto dettaglio diceva all’incirca Valéry. Ma ciò potrebbe essere vero se ci fosse un’arte dei dettagli il cui orizzonte non fosse più costituito dall’arte d’insieme”. È dunque a partire da una visione d’insieme lasciata solo immaginare che l’inquadratura subito si stringe su alcuni elementi, già isolati dall’ambiente, ma ancora precipitati casualmente nella dispersione di una corrente che li ha semi-cancellati.
Gli scatti successivi, sulla via di una sempre maggiore sottrazione di realtà, presentano rarefatta, monumentale e fantasmatica, la pietrificazione di consistenze di fango.
Emergono via via oggetti inusitati, che l’acqua ha riportato alla luce, insieme a frammenti di memoria. Ed eccoli raccogliersi e tenersi stretti, sottratti alla loro funzione e come animati: due grosse forbici sono reciprocamente attratte da un’affinità magnetica; i cambi di trattore oscillano in un vento musicale; i contachilometri riuniti a grappolo sembrano pezzi antichi da collezione.
Oppure ci si fanno incontro solitarie presenze materiche: una lampadina-fossile-cranio-conchiglia; un desueto registratore di cassa nel suo insulso riapparire nella leggerezza di una sospensione; un groviglio di ingranaggi, fioritura allucinata di melma, fragile danza meccanica inglobata da una densità invisibile. Una vecchia macchina fotografica accecata dal fango sembra navigare nella luce o affiorare da un naufragio dello sguardo: “Soprattutto mi piacerebbe — afferma l’autrice — che alle mie foto fosse dedicato il tempo necessario, quello che mi ha condotta ad abbandonarmi e a perdermi nel flusso delle cose, in modo tale che lo spettatore sia a sua volta travolto dalla piena immaginaria”.
Anche le pagine di un libro, non più sfogliabili, hanno in fondo altre storie da raccontare, e parlano di una unicità trascorsa nell’omogeneità della perdita, e pure della nuova esistenza singolare che l’immagine ha rapito alla morte della cosa.
NOTE
(1) Silvio Danese, “Oggetti da un’alluvione”: la fotografia come etica, «Il Giorno».
domenica 4 febbraio 1996.
(2) Maurice Blanchot, L’écriture du désastre, Paris, Gallimard, 1980.
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